Positività di Pink

L’intervento verte sul senso della solitudine. Perché credo che sia necessario – se vogliamo, già a partire da questo Convegno, poter annoverare The wall dei Pink Floyd, al di là delle preferenze personali di ciascuno degli intervenuti, come una delle opere “manifesto” della fine del XXI secolo – attribuirle un significato nuovo, altro e più alto. I capolavori dell’arte di tutti i tempi e di tutti i popoli sono tali perché – fondamentalmente – ci sanno dire qualcosa intorno all’uomo, qualcosa di assoluto e valido per tutte le epoche, qualcosa di intramontabile, che rende le opere stesse immortali non solo per la loro forma, lo stile, ma anche e soprattutto per i loro contenuti. Quando ci saremo liberati del tutto dei fantasmi della II guerra mondiale, quando il nucleo familiare avrà ritrovato compattezza, quando la scuola saprà equilibrare il suo ruolo di educatrice con quello di dispensatrice di sapere, quando l’uomo avrà imparato a convivere con i problemi legati alla società del nostro tempo, quella che così crudamente e spietatamente ha descritto Roger Waters, o quando saranno mutati i problemi con cui la società giornalmente si deve confrontare, che cosa rimarrà di The wall? Io credo che rimarrà The wall. Non solo perché è un valido strumento per comprendere i fenomeni culturali e artistici della fine del XXI secolo – e mi viene subito in mente il bel articolo scritto da Germano Celant su l’Espresso del 4 gennaio 2001 circa l’arte totale – come più volte detto e spiegato anche in sede di presentazione del Convegno, ma soprattutto perché il concept album torna ancora una volta su uno dei temi capitali circa la natura dell’uomo, quello appunto della solitudine, che tanta parte ha avuto anche nel nostro Novecento filosofico e poetico.

Questo mio tentativo può avere un valore se teniamo a mente il brano di Pietro Verri che ho voluto anteporre a tutto il Convegno. In particolare quando afferma che «… nella musica l’ascoltatore deve coagire sopra se stesso, e dalle diverse disposizioni del di lui animo accade che ora in un modo, ora nell’altro agisca, e sieno così diverse le sensazioni prodotte dal medesimo oggetto occasionale» e quindi anche che tutte siano legittime. Un’affermazione che ci consente così di dare un valore non solo all’opera in sé, ma anche alla critica, in linea con quanti affermano oggi, e non sono pochi, che «nell’interpetazione sta il principio della speranza». Vale allora la pena citare ancora Oscar Wilde, che sosteneva nel 1891, nel saggio The Critic as Artist: «… la creazione limita, mentre la contemplazione (un aspetto sul quale non mancherò di tornare ancora) amplia, la visione…», e se magari non è proprio così è certo che aiuta ad attualizzare e a mantenere viva un’opera.

Sono partito, per arrivare a certe conclusioni, da alcune domande piuttosto semplici e ricorrenti nella mia testa: “Perché quando ascolto The wall sono felice?”; “Perché non vi è in me traccia di quelle ansie, di quel sottile disagio che accomuna tanti degli ascoltatori del disco dei Pink Floyd e ancor più tanti degli spettatori del film?”; “Com’è possibile che un’opera riconosciuta unanimemente come il manifesto del pessimismo e del nichilismo watersiano non produca in me altro che “sensazioni positive”? La mia rilettura di The wall, la mia personalissima ermeneutica dei testi parte da queste domande e non pretende di convincere nessuno ad accettarla.

Siamo veramente sicuri di essere di fronte ad una dichiarazione di “nichilismo” tout court, che si tratti cioè di un mero «rifiuto della vita» e non piuttosto una nuova esaltazione dell’unica vera vita possibile, la vita interiore, la vita solitaria, quella – tanto per intenderci – cantata da Petrarca nel ”De vita solitaria”, una delle sue opere più belle e meno conosciute, e che ha forti agganci in tutta la letteratura italiana, basti citare la siepe di Leopardi, e non, sino – già che siamo in vena di ricorrenze e di festeggiamenti di anniversari – a “La casa in collina” di Pavese (che è anche la sua opera migliore)?

Se così fosse due sono i temi fondamentali da affrontare e tra loro strettamente connessi: quello appunto della condizione della solitudine dell’uomo e quello dell’incomunicabilità, che porta all’aumento della prima. Una condizione, quella della solitudine, che appare di humane nature anche in The Trial. Il Procuratore del Regno infatti presenta come principale capo d’imputazione contro Pink quello di averlo catturato in flagrante «espressione di sentimenti, sentimenti di natura quasi umana». E vedremo nel corso del processo come tali sentimenti, umani o quasi, siamo appunto stati quelli che hanno condotto Pink all’isolamento più totale e al rifiuto del commercio con la società che lo circonda. Le scene finali del film che scorrono dopo la sentenza del Giudice, che lo vuole «riconsegnato ai suoi simili», dimostrano che la «deepest fear», la paura più profonda di Pink e la sua incapacità a relazionarsi con il mondo esterno non erano poi così assurde e illegittime.

È The Wall il disco delle domande senza risposta: se ne contano almeno una settantina, che vanno dalle più banali a le più complesse, da quelle del tipo: «Would you like to wach TV?», a quelle che attendono ancora oggi una risposta come «Is there any body in there?». E troppe volte le uniche risposte che il disco prova a dare sono affidate al lamento urlante della chitarra gilmouriana. Un lamento che costringe ognuno di noi a cercare quelle risposte dentro a se stesso e che segna quindi l’apoteosi finale del muro dell’eterna solitudine dell’uomo. Risposte dunque che rimangono solo intuite, fratte, che hanno bisogno di continui ripensamenti, di essere continuamente messe al vaglio. Ed è, in un certo senso, lo stesso percorso che ha condotto Nietzsche al superamento del nichilismo leopardiano, che nello Zibaldone si era fermato alla amara constatazione del «Nulla di tutte le cose». La sperimentazione quindi del nichilismo in vista però di un suo superamento. E la ricerca interiore come mezzo possibile per attuarlo.

Una lettura di questo tipo ha una possibile conferma proprio alla fine del disco: la distruzione del muro, il suo abbattimento, non è che “pura negatività”. La costrizione cioè subita dall’uomo di abbandonare la riflessione e l’indagine su se stesso e il tentativo – dall’altra parte – della società di ricatapultarlo nel turbinio infestante della sua vacuità, che non è poi che autoaffermazione di sé a danno del singolo. Non posso quindi condividere l’interpretazione del finale dell’album che ha dato Cliff Jones nel 1996, La storia dietro ogni canzone dei Pink Floyd, edito in Italia nel 1997 da Tarab. Dice infatti che il momento del crollo del muro è un momento doloroso, come sottolinea l’urlo che l’accompagna. Quindi aggiunge: «In origine, Waters aveva avuto intenzione di concludere l’album e il film con il muro ancora in piedi, ma poi aveva deciso che l’idea era “troppo tosta… troppo Vaffanculo”. Con l’aiuto di Bob Erzin, venne deciso di far terminare l’album su una nota ottimistica, per rimandare a casa i potenziali acquirenti col sorriso sulle labbra…». Venne così aggiunta Outside the wall. Credo però che questa non aggiunga affatto una nota di ottimismo, quanto piuttosto, giocando sul fine umorismo watersiano, aggiunga pessimismo su pessimismo, e d’altronde Waters non era tipo da lasciarsi irretire da tali rimorsi morali. Non è quindi un caso – per me – se il disco non termina con The Trial e con la sentenza del giudice, che decretando l’abbattimento del muro e il rientro coatto in società per Pink sembra condannare anche la sua vita solitaria e individuare come unico salvagente il mondo esterno alla “follia” di Pink, ma con la dolente processione di amici e conoscenti al corpo esanime di Pink, sempre più solo e ora anche privato di quel muro su cui aveva costruito, faticosamente e a fronte di gravi e dolorose rinunce, la sua unica felicità, quella appunto della ricerca.

Badate bene, che anche in dimensione politica, il concerto tenuto da Waters alle spalle del decrepito muro di Berlino nel 1991 sembrava lanciare lo stesso messaggio: la distruzione del muro come “sconfitta”, nonostante la marea spensierata di fan inneggiante, non tanto perché il soggetto malato non può più essere guarito, quanto perché in realtà chi pretende di abbattere il muro non ha in cambio nessuna medicina, nessuna certezza, nessuna risposta da offrire a quelle settanta domande che ne pretenderebbero almeno una.

Il concerto si tenne nella Berlino est, in Potsdamer Platz, con il palco rivolto verso la Berlino ovest, dal luogo delle domande, che nascono da dentro il muro, al luogo da dove dovrebbero pervenire le risposte. Waters, socialista di ferro, cosa poteva pensare della caduta del muro, celebrata un po’ da tutti, insieme alla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica, come la “morte” del comunismo? L’ovest “conquistatore” ha ora il difficile compito di dare – politicamente – delle risposte di carattere economico e sociale. Un pensiero che sembra attanagliare la mente dello stesso Gilmour molti anni dopo: vediamo cosa riferisce Jones: «Questo brano (si riferisce a A great day for freedom, tratto da The division bell) è uno dei più personali che Gilmour abbia mai messo su nastro o disco. Egli trasse ispirazione dal titolo di un articolo di giornale riguardante la caduta del Muro di Berlino, e la prima strofa parla infatti della caduta del comunismo. Il testo esamina anche le conseguenze del processo di unificazione della Germania, chiedendosi se la cosa abbia fatto gli interessi di tutte le persone coinvolte… “Quando cadde il Muro, ci fu un meraviglioso momento di ottimismo: l’Europa orientale era stata liberata dagli aspetti antidemocratici del socialismo. Però, ciò che ha adesso quella gente non sembra essere molto meglio (disse Gilmour)”». La folla urlante evidentemente non aveva capito che il concerto di Waters non voleva essere una “santificazione” del capitalismo, ma casomai un monito, un invito sprezzante a dare le risposte che si voleva far credere di avere in tasca. Quanti lo avranno capito non lo so?

Per chi però rimane legato ad una lettura politico-sociale, chiamiamola classica, dell’album, il suggerimento è quello di non mancare di indagare la natura di un altro problema capitale della cultura del Novecento. Quello cioè delle possibili relazioni intercorse tra nichilismo e totalitarismo. Cito Angelino: «In realtà fra nichilismo e totalitarismo vi è un nesso profondo che deve ancora essere studiato in tutti i suoi aspetti a partire da una verità difficilmente contestabile: “il nichilismo è nel dominio del pensiero la condizione della possibilità del totalitarismo nel dominio dell’azione”; non è un caso che stati totalitari siano sorti in quei paesi la cui cultura ha conosciuto l’esperienza del nichilismo, cioè in Germania e in Russia». Al culmine del nichilismo watersiano, al termine cioè di Comfortably numb, Pink assume quell’atteggiamento da leader nazista che tanto sbigottisce e insieme affascina gli spettatori del film.

Certo i dubbi intorno al problema della solitudine non si possono risolvere in modo troppo semplice e sbrigativo. Se vogliamo la condizione della solitudine non è quella più naturale per l’uomo e per quanto la si possa considerare – al limite – un privilegio: recentemente in un intervista Angelo Branduardi ha giustamente affermato che «… gli artisti sono degli esseri contraddittori… incarnano la perfetta letizia, ma anche il perfetto tormento», che diventa fonte prima di ispirazione, tuttavia l’uomo resta un animale sociale. E non si vuole nemmeno tornare ad una lettura da English studies dell’opera, che vede nel dolore e nella sofferenza la modalità esemplare della realizzazione di sé. Bisogna per forza tornare ancora ad Oscar Wilde e a The Critic as Artist, dove si condanna questa teoria e si determina la volontà di superala. Altrimenti rimarremmo legati ad una visione della santità senza Dio, nei termini già illustrati da Camus. Ed è sicuramente vero che The Wall, oltre ad essere un disco completamente privo di amore, è anche privo di Dio (e non potrebbe essere altrimenti), ma la lettura che ne voglio proporre io rifugge dall’idea che «l’umanità acceda alla saggezza attraverso la sofferenza, e che quest’ultima renda umani» (Dollimore), anche se è innegabile che l’accesso alla saggezza richiede sacrificio e che dolore e sofferenza siano esperienze ineludibili della vita umana. Ma qui – e lo vedremo tra poco –  non si tratta del dolore causato dagli sforzi legati alla conquista della saggezza, quanto piuttosto del dramma della sua incomunicabilità una volta raggiunta.

Dicevo poc’anzi dei dubbi legati al problema della solitudine. Dovrebbe quanto meno farci riflettere, a meno che non vogliamo proprio considerarla una casualità, il fatto che Bring the boys back home arrivi subito prima di Comfortably numb. Che cioè il messaggio di più cupo pessimismo di tutto il disco, quello in cui la solitudine, l’estraneamento, diventa in certo modo “fonte di salvezza”, sino ad essere ritenuta addirittura piacevole, o più alla lettera, confortevole, sia preceduto da un ordine perentorio Bring the boys back home appunto. Quasi come se ci fosse la consapevolezza di dire qualche cosa di tremendo, di diabolico, di assai poco costruttivo. Una verità che i bambini è meglio che non ascoltino. Allontanate da me i bambini, perché la verità è questa ed è meglio che loro non la sentano. Fate cioè dei vostri figli tutto quello che volete, ma non fatene degli artisti, poi tutto è triste! E visto che tra le relazioni si parlerà anche di deepest fear, vale forse la pena ricordare, con riferimento a Hegel che la filosofia è essenzialmente “coraggio della verità” e che quindi la conoscenza della verità presuppone sempre una buona dose di paura, ma d’altronde, con Sofocle, “la verità è sempre un bene”. Questo è anche il capovolgimento (voluto?) del messaggio di Cristo: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il Regno di Dio», che introduce una delle pagine di più alta speranza di tutto il Vangelo di Marco (10, 17-27), quella del giovane ricco che si chiude con questo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli: «Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: “E chi mai si può salvare?”. Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio!”». Che è poi come dire invece che fuori dalla Fede non c’è speranza alcuna di salvezza. Cosa che il disco sembrerebbe, almeno in parte, confermare.

Ma al di là di certe interpretazioni che potrebbero anche sembrare del tutto personali, questo tipo di lettura, trova la sua più forte e decisa legittimità nelle parole che in più interviste hanno pronunciato i vari componenti della band. Per cercare di attribuire a David Gilmour gli stessi miei pensieri, si può ricorrere alle parole che il chitarrista pronunciò nel corso di un’intervista con Tommy Vance: «Mi sento molto triste per Syd; non mi sentivo così da anni. Penso che per anni sia stato una minaccia, per via di tutte quelle fregnacce scritte sul suo conto e sul nostro; ovviamente era stato molto importante, e la band non sarebbe neanche riuscita a muovere i primi passi senza di lui, perché era lui che componeva tutto il materiale. Insomma, non saremmo neanche nati senza di lui, ma d’altra parte non avremmo potuto andare avanti assieme a lui… egli però fu semplicemente un simbolo degli estremi rimedi ai quali certa gente deve ricorrere perché non è in grado di affrontare la tristezza di questa cazzo di vita moderna: ritirarsi completamente, cioè».

Sino a qui il discorso sulla solitudine e il tentativo di rileggere The wall in maniera così radicalmente diversa da far apparire il suo protagonista, Pink, come un eroe positivo, alla disperata ricerca di se stesso. Ma ammesso che tale operazione possa essere condivisa, resta da risolvere il secondo problema, cui accennavo, quello legato alla comunicazione. Una volta trovata la chiave per capire se stessi che cosa avviene. Qui comincia il vero dramma di Pink. Si può riprendere in esame il finale del disco e capire meglio Outside the wall, non più velata nota ottimistica, ma ancora più pessimista se si tiene conto che con tale conclusione si mette in discussione anche il possibile conforto che può eventualmente derivare dalle persone più care, ma con le quali, comunque, rimane alto e ben solido il muro dell’incomunicabilità. Sono infatti le stesse persone care, che «vanno e vengono su e giù dal muro», quelle che sentenzieranno come non sia facile «picchiare contro il muro di un pazzoide». L’abbattimento del muro dunque non comporta nessun avvicinamento delle parti, ma evidenzia la volontà della Società di appiattire la mente dell’artista e conformarla ai suoi dettami. Per fortuna l’artista aveva già dato la sua risposta alla fine del primo disco: «Non c’è nulla che tu possa fare per farmi cambiare idea». Significativamente posta prima di Hey you, la canzone che potremmo chiamare la della speranza, quella che, nelle parole degli amici e degli intimi di Pink, ripropone i vantaggi della leopardiana «social catena» nella chiusa finale: «Insieme ce la possiamo fare, ma divisi cadiamo», ancor più significativamente però esclusa dal film, dove la seconda parte ricomincia con la ben più pessimistica Is there any body out there, che ci presenta un Pink disperato, che batte sordamente i pugni contro il muro.   

L’artista è sempre colui che sente in modo diverso, più alto e che vive in maniera drammatica l’eterna tensione di farsi comprendere e accettare e che non può che rimanere deluso proprio dalle persone a lui più care, quelle da cui era più facile e logico attendersi un po’ di comprensione. L’artista è quello che, assalito da dubbi e domande, preso dall’esigenza impellente di parlare con qualcuno al telefono, non trova mai nessuno in casa, Nobody home, il simbolo più forte dell’incomunicabilità, anche perché il numero di telefono, di solito, lo si ha solo delle persone che è lecito considerare “amiche”.

È, se vogliamo, il dramma di Mallarmè, per il quale «l’ascetica ricerca di assoluto, di incontaminato, porta il poeta al dramma dell’inespresso, alla pagina bianca»: l’incapacità cioè di dire quanto si prova, quello che si sente, o forse l’impossibilità che gli altri ci capiscano del tutto. È solo così che tornano i conti sulla criptica apertura e chiusura del disco che altrimenti non si spiegherebbero. Questo, notava giustamente il Jones si apre con «… le parole “… siamo arrivati?” accompagnate da un triste motivo Yiddish suonato da un violino e da una fisarmonica… ciò sembra non avere alcun senso finché non si ha modo di sentire le ultime parole dell’album che sono: “Non è qui che…” il che implica il fatto che l’intera cosa altro non è che un ciclo, e che una volta che il muro è stato demolito, si comincia a costruirne un altro… l’intero album è – per Waters – un ciclo eterno».

Il problema è capitale: l’artista considerato pazzo, pazzo non è affatto, ma semmai, dotato di un diverso e più profondo modo di sentire, vive il dramma dell’incomunicabilità. Alla domanda impertinente: «Is there anybody in there?», Pink beffardamente risponde capovolgendola: «Is there anybody out there?» (il titolo che è stato dato all’album pubblicato l’anno scorso e che propone una versione live di The wall): le distanze insomma sono incommensurabili. Ma se per quanto concerne l’incomunicabilità le oltre settanta domande di Waters sembrano non condurre a nessuna risposta, è forse altrove che bisogna provare a cercarle.

Lo scontro così ampio e fatale che si consuma tra Waters e Gilmour in maniera vieppiù mastodontica proprio a cominciare dalla lavorazione di The wall, mette a confronto anche le diverse “vedute filosofiche” dei due autori. Al pessimismo nichilista di Waters, che traspare in larga parte dai testi, e che come detto non è capace di dare alcuna risposta, si contrappone il “cauto ottimismo” di Gilmour, che ricerca con i mezzi che ha a disposizione, cioè la musica, di fornire e di fornirsi delle risposte: che cioè non si blocca di fronte alla barriera del niente (o del negativo), ma che – abbandonando il campo della ragione – riprende la sua ricerca nel campo dell’arte.

Nell’introduzione al libro XII della Metafisica di Aristotele, quello della “ricerca del dio” attraverso gli strumenti del pensiero e della ragione di contro alla poesia e alla religione, il professor Angelino fa notare come la scepsi antimetafisica contemporanea abbia costretto «il filosofo ad abbandonare questa tradizione e a ricercare dio in quei domini – del mito, della poesia, della fede – contro cui Platone ed Aristotele avevano combattuto una lotta di giganti, per affermare il primato del pensiero». E allora se di nichilismo si deve tornare a parlare, mi si conceda ancora una digressione filosofica, perché è assolutamente necessario rifarsi agli autori capitali della filosofia nichilista, a Nietzsche in particolare. «Solo l’arte si presenta a Nietzsche come la grande terapia del Wille zum Tode, del Wille zum Nichts, come la forza contraria al nichilismo, capace, anche quando canta la sofferenza e la morte, di risanare il ‘malato’, di allettare alla vita, di riconciliare con essa (Venturelli – d’Oria)».

Sono così portato a spezzare una lancia in favore di Gilmour e del lavoro oscuro cui si è sottoposto. È la sua chitarra a fare da contraltare ai testi di Waters, è nella sua chitarra che risiede quell’arte capace di risanare “il malato (e non può che tornare ancora alla mente la tetra vicenda di Barret, di cui Gilmour era stato il più intimo amico)”, quella risposta che capovolgendo il significato delle parole di Waters mi fa sembrare bello e positivo tutto il disco.

E che il tema dell’incomunicabilità abbia sempre ossessionato Gilmour lo dimostrano i testi dell’ultimo album The division bell. Molte delle canzoni infatti parlano di quanto gli avvenimenti del precedente decennio abbiano influenzato la tempestosa vita dei Pink Floyd; «… il tema conduttore dell’album è tipico del gruppo: l’incomunicabilità, qualcosa che tutti e tre i componenti la band conoscevano fin troppo bene, avendo sprecato anni interi nei tribunali a litigare gli uni con gli altri e avendo tutti fatto esperienza di travagliati e turbolenti divorzi (Jones, pag. 231). E ancora una volta, dal momento che molti testi furono “appaltati” ad elementi estranei alla band, le eventuali risposte sono da cercare nella musica. L’iniziale, splendida, genuinamente pinkfloydiana, Cluster one ne è l’esempio più mirabile. Si tratta di un vero e proprio dialogo tra la chitarra di Gilmour e le tastiere del “redivivo” Wright, maieuticamente ben più concludente del successivo What do you want from me?, che con la sua lunga serie di domande non fornisce nemmeno una risposta.

Se così è, bisogna anche rivalutare la produzione dei secondi (o terzi?) Pink Floyd: quelli ormai orfani di Roger Waters, cui si deve quasi integralmente la composizione di The Wall. Un’intervista a Gilmour, poco dopo l’uscita di “A momentary lapse of reason”, aiuta a chiarire le finalità nuove del gruppo. Diceva Gilmour: «…sono solo canzoni… non ci sono pretese particolari»: certo serviva a mettere in guardia i fan dei vecchi Pink Floyd affinché non si aspettassero più niente di simile a The Wall o a The final cut, dischi che hanno la pretesa di dire qualcosa, coesi, concepiti e suonati come se si narrasse un’unica grande storia, ma anche a chiarire che la ricerca era ora basata solo sui suoni, quasi un passaggio dal mondo dei cantautori a quello dei musicisti. Ecco così spiegato, per esempio, il lungo a solo di chitarra (oggi è alla chitarra gilmouriana che è affidato il marchio inconfondibile dei Pink Floyd), 1’ 45’’ nell’album; 2’30’’ nella versione dal vivo della tournée 1980-81; che chiude la versione live di Comfortably numb in Delicate sound of thunder, dove si protrae per oltre 4’.

Gilmour non ha nessuna risposta da dare alle domande irrisolte di Pink, costringe noi alla ricerca attraverso il suono ossessivo e struggente della sua chitarra. Ma con questa operazione si torna al discorso di base da cui ero partito e a cui voglio tornare. É cioè nel silenzio, nella solitudine, al di qua del muro, che si può compiere quella ricerca interiore cui forse Pink anelava. La chitarra di Gilmour diventa il mezzo più consono per guidarci in quella ricerca all’interno di noi stessi, quasi «fuga da solo a Solo» di plotiniana memoria. É il modo migliore e più coerente che i Pink Floyd di oggi hanno per riattualizzare ancora il disco del 1979, che se fosse legato solo ad aspetti sociologici e storici sarebbe quasi sicuramente un’opera del tutto passata, anche se non sorpassata.

Il circolo dunque si chiude, è un circolo vizioso, pericoloso e vizioso. Le mille domande senza risposta ci costringono a rivolgerci alla società, una società però entro la quale non troviamo risposte alle nostre domande. Al “Pensiero” dunque fa seguito il “Silenzio”, ma siamo in musica e non si tratta di un silenzio assoluto. Il Silenzio, il luogo che dovrebbe essere il datore della “Verità”, è riempito dalla musica, dal lamento urlante della chitarra gilmouriana. Ecco il luogo delle risposte, cioè noi stessi, suggestionati dalla musica. Le risposte sono nel Silenzio della chitarra, nella sua inintelligibilità, o meglio interpretabilità, e quindi nella solitudine. L’invito, paradossale, è – anche nella filosofia di Gilmour – quello di ricostruire il muro! Ma ben diversamente da come aveva suggerito lo stesso Waters a chiusura di album.

 

1 Novembre 2011 by: Commenta -
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